C. J. Moore, The Untranslatables: The Most Intriguing Words from Around the World. London: Chambers (2009)Chambers è l'editore moderno del leggendario Brewer's Dictionary of Phrase and Fable, quindi il libro promette bene.
Avete presente fattoidi tipo "Gli esquimesi hanno diciassette parole per indicare la neve"? L'idea è che il nostro linguaggio derivi e allo stesso tempo dia forma al nostro modo di pensare e di vedere la realtà; culture diverse hanno modi diversi di esprimere la stessa cosa e (più interessante) a volte hanno parole per esprimere concetti per i quali in un'altra lingua bisogna ricorrere a complicate perifrasi. Lo studio delle parole di una lingua che non hanno corrispondenti nelle altre dovrebbe quindi offrire una bella finestra da cui guardare una cultura.
Si incontrano quasi subito (a pag. 27) alcune parole utilissime come Drachenfutter, che in tedesco indica un piccolo dono di pace offerto dal marito alla moglie infuriata (tipicamente perchè ha ecceduto con la birra alla Oktoberfest, immagino). Letteralmente, e appropriatamente, significa "foraggio per il drago".
Il record di intraducibilità, ci racconta Moore a pag. 79, va alla parola ilunga, che in Tshiluba (un dialetto Bantu parlato nella repubblica del Congo) indica una persona pronta a perdonare qualunque cosa una prima volta, a tollerarla una seconda ma mai una terza. Che è un bel concetto da esprimere in sei lettere.
Ah, dimenticavo: la storia degli esquimesi e della neve è falsa (o meglio, come sempre succede è più complicata di così: fatevi un giro su Wikipedia). Se ne volete una garantita, a pag. 13 scopriamo che i giapponesi hanno due parole per l'acqua: mizu, che indica l'acqua fredda, e oyu, che indica quella calda.
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